Nando Pagnoncelli: ridare fiducia per guardare al futuro

Nel contesto delle evoluzioni dell’ultimo anno non è immediato riuscire a mettere a fuoco quanto sta cambiando e in che misura, anche come cittadini, possiamo contribuire nel delineare l’Italia che verrà. Uscire dalla sfera della sola percezione per approfondire la realtà è il primo passo per costruire un percorso di fiducia e sostegno concreto al nostro Paese

Di Francesca Casirati

Covid-19, crisi economica, lavoro, occupazione: tutti temi al centro del quotidiano dibattito e su cui non mancano aggiornamenti costanti e prese di posizione differenti. Ma qual è l’opinione degli italiani? Quali scenari di delineano per il nostro Paese, i suoi cittadini e le sue attività economiche?
Ne abbiamo parlato con Nando Pagnoncelli, noto sondaggista italiano ai vertici di Ipsos.

Il 2020 è stato l’anno contrassegnato dal Covid-19, ma a questa emergenza sanitaria se ne sono poi aggiunte altre (economica, politica, sociale). Li possiamo leggere come aspetti diversi di uno stesso problema?
Sicuramente si tratta di questioni concatenate che aumentano il senso di inquietudine manifestato dagli italiani. Le reazioni a queste preoccupazioni si sono però espresse con modalità completamente differenti tra i due maggiori picchi dell’emergenza sanitaria dal punto di vista dei contagi. La scorsa primavera il primo impatto con la pandemia ha mostrato dei risvolti sorprendenti e positivi: si è riscoperto l’appartenenza a una comunità e l’interdipendenza, a discapito della dimensione prettamente individuale; è prevalso il senso di responsabilità con un generale rispetto delle regole; è aumentata la fiducia verso le istituzioni; è stato riassegnato valore a competenze e delega a chi le detiene, in contrapposizione all’approccio dettato dalla disintermediazione che portava a mettere in discussione istituzioni e corpi intermedi;  è emersa la centralità del capitale sociale per fare fronte comune: donazioni e volontariato hanno avuto un ruolo di primo piano.
In autunno lo scenario si è trasformato. Mentre infatti il virus sembra colpire in maniera “democratica”, è apparso evidente che la crisi economica è selettiva e tocca alcune categorie più di altre. È così venuto meno il senso di concordia e coesione, sostituito dal riaffiorare di particolarismi e divisioni, avallati da un generale desiderio di ritorno alla normalità e da una crescente stanchezza. Una situazione che non ha aiutato la politica, ma al contempo la stessa crisi di Governo ha gettato gli italiani nello sconcerto, acuendo ancor più un percepito di distanza tra cittadini e quelle che vengono interpretate come logiche di potere.

Quale tra questi aspetti emergenziali sembra oggi assumere il rilievo maggiore per gli italiani?
Dallo scorso anno monitoriamo settimanalmente il sentiment dei cittadini e abbiamo rilevato come la risposta degli intervistati cambi a seconda della prospettiva in cui ci si pone. Se si pensa a sé stessi, ai propri cari o alla propria comunità di riferimento, allora prevale la preoccupazione per il contagio da Covid-19; diversamente, guardando alla situazione globale del nostro Paese, spicca una maggiore inquietudine verso la questione economica e occupazionale.

Per l’industria cosmetica i dati preconsuntivi sulla chiusura del 2020 ci parlano di contrazioni più contenute rispetto ad altri comparti e sicuramente più ottimistiche di quanto inizialmente ipotizzato. Ora c’è ovviamente grande attesa sull’evolversi del 2021 e il percorso verso un nuovo equilibrio. Quali sono le sfide a cui le aziende, a prescindere dal settore di appartenenza, dovranno dimostrare di saper rispondere?
La sfida principale è ridare fiducia ai cittadini. Qui entra in campo la corporate social responsibility, tema verso il quale negli anni le aziende hanno profondamente cambiato approccio. Non si tratta più infatti di intendere la csr come un atto di filantropia; consapevoli di interagire con una pluralità di interlocutori, le imprese cercano di essere socialmente responsabili e questo ispira le loro decisioni a 360°. È un approccio olistico che coinvolge management, dipendenti, clienti/consumatori, comunità in cui si opera.
Sapendo di avere una responsabilità verso la società, le aziende sono disposte a modificare le proprie strategie, diventare più empatiche e rafforzare il rapporto col consumatore. Un percorso che contribuisce fortemente a generare fiducia e in cui le stesse associazioni di categoria possono offrire un valido supporto.

Possiamo dire che cambierà il modo di fare impresa?
Per le aziende questa è un’occasione importante per proseguire o avviare i processi di trasformazione digitale, ciascuna secondo il proprio approccio e le proprie necessità.

Per il “capitano d’industria” questo è inoltre il contesto in cui dare corpo al proprio spirito imprenditoriale, cogliendo – anche nella crisi – le opportunità e lanciandosi verso nuovi prodotti e servizi in un’ottica di innovazione.  

Uno degli aspetti che ha cambiato – improvvisamente – il modo di lavorare di molti è stato lo smart working. Come è stato accolto e applicato e come può essere descritta adesso la realtà del lavoro a distanza?
Lo smart working presuppone di lavorare per obiettivi e instaurare un rapporto fiduciario tra lavoratore e azienda. Quello che è stato sperimento su larga scala è stato perlopiù telelavoro con un semplice trasferimento entro le mura domestiche della classica attività lavorativa. Inizialmente si è fatto di necessità virtù e si è accettata, dove applicabile, questa nuova modalità, complice la paura del contagio.
Oggi possiamo tracciare un primo bilancio e, oltre ad apprezzare la possibilità di conciliare talvolta in maniera più agevole sfera privata e professionale, ci rendiamo conto di cosa stiamo sacrificando: perdiamo i momenti di confronto personale, la socialità spesso determinante nel trovare soluzioni o prendere decisioni in modo efficace. Ecco perché per il futuro è probabile che possano prevalere prevarranno dei modelli basati sull’alternanza: una ridefinizione dell’approccio verso il quale molti sono stati repentinamente proiettati, in un’ottica di maggiore equilibrio.

Quali scenari si delineano dal punto di vista occupazionale, pensando in particolare alle donne?
I rischi occupazionali sono seri, specie per alcuni comparti e molto dipenderà dalla possibilità o meno di prolungare la cassa integrazione o il blocco dei licenziamenti. Sicuramente gli interventi delle istituzioni dovranno essere orientati qui: si stanno infatti gettando le basi per il Paese dei prossimi dieci anni e occorre una presa di responsabilità generale non solo per garantire la pace sociale, ma una prospettiva di cui tutti beneficeranno.
Nel Recovery Plan si recepiscono di fatto le indicazioni dell’Unione europea sull’inclusività, declinate nel caso specifico dell’Italia su giovani, Sud e donne. Proprio sul tema delle differenze di genere è tempo di lavorare ad un loro annullamento o, più realisticamente almeno nel breve-medio periodo, alla loro attenuazione. Il lockdown ci ha infatti dimostrato che il carico famigliare, anche in condizioni di parità dal punto di vista dell’occupazione, è comunque ancora sbilanciato sulla donna. Per intervenire occorre un cambiamento culturale che però non può avvenire in maniera inerziale: deve essere sorretto da provvedimenti legislativi e finanziari. Se vogliamo far sì che l’Italia non resti in fondo alla classifica dei Paesi UE per divari di genere, occorre stanziare fondi che favoriscano nel tempo la transizione culturale, aumentando l’occupazione femminile e riducendo i gap nelle retribuzioni e nei processi di avanzamento di carriera. È necessario investire nei servizi per l’infanzia e in quelli per gli anziani, nelle politiche conciliative che consentano a lavoratori e lavoratrici di conciliare gli impegni di lavoro con quelli familiari.

Nel suo libro “La penisola che non c’è” descrive le distonie che spesso in riferimento al nostro Paese si creano tra la realtà e le opinioni rappresentate dai sondaggi. A cosa sono dovute queste incongruenze?

Come italiani abbiamo l’attitudine ad amplificare i fenomeni che ci preoccupano di più e per questo siamo il Paese dove il divario tra percezione e realtà è più alto.

Le cause sono strutturali: un livello di scolarità medio ancora basso nel confronto europeo e il tipo di approccio all’informazione. Paradossalmente oggi siamo più informati, ma manca il senso critico e la capacità di discernimento. La tv resta ancora la fonte di informazione prevalente, cresce il web – con annesse problematiche relative alle fake news – mentre crolla la carta stampata. Se pensiamo a quale risultato differente può portare informarsi su un tema attraverso internet in pochi secondi, un servizio tv in un minuto o poco più o un articolo di giornale che richiede un impegno e una concentrazione più alti, capiamo perché siamo un Paese dove prevale la percezione.

Quali sono le “armi” per avere una visione più concreta e reale del mondo che ci circonda?
Essere cittadini più consapevoli. La democrazia va curata e richiede l’impegno di tutti, tra cui il dovere all’informazione, esprimere il proprio senso civico informandosi.
La stessa politica spesso vive di consenso, facendo leva su paure e percezioni. Questo genera un cortocircuito nella democrazia stessa: inseguire l’opinione pubblica, anziché delineare obiettivi e mete condivise, non permette di attuare riforme e prendere provvedimenti che potrebbero risultare impopolari ancorché necessari per il Paese.
Gli italiani hanno in mente una penisola che non c’è, perché la dipingono come un luogo distopico con una visione più severa e negativa di quanto la realtà potrebbe giustificare. Anche qui però bisogna ripartire dalla fiducia. In moltissimi ignorano quali siano i primati del nostro Paese, ad esempio le nostre indagini ci dimostrano che è ancora poco noto e accolto con stupore il fatto che la cosmetica italiana sia un’eccellenza a livello mondiale. Accogliere e valorizzare quanto ci distingue e ci rende unici come Paese, non significa negare i problemi, ma ricondurli nella corretta dimensione.
Per dirla citando l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, occorre un “patriottismo dolce” che permetta di recuperare slancio e prendersi cura del nostro Paese.