Curare le persone

Approccio multidisciplinare, equipe di professionisti che lavorano in sinergia, luoghi dedicati per garantire supporto e accoglienza: sono questi i pilastri di un nuovo modello di medicina, che non guarda solo a sconfiggere le malattie, ma anche a garantire la miglior qualità di vita possibile a chi affronta le terapie. Anche attraverso la cura di sé

Di Benedetta Boni e Mariachiara Silleni

“Sono diventato medico per curare le malattie, non i malati”. Era il Dottor Gregory House, nell’omonima serie tv, a pronunciare queste parole. Cinico, distaccato, interessato alla propria vittoria personale contro le patologie, più che alla salute e al benessere dei pazienti, si è rivelato innegabilmente un personaggio televisivo di grande successo, ma oggi rappresenta un paradigma dal quale la medicina più all’avanguardia e vicina alle persone desidera staccarsi. Va, infatti, nella direzione diametralmente opposta il lavoro di numerosi medici, infermieri e professionisti sanitari, che ogni giorno lavorano in equipe multidisciplinari, anche con il contributo di volontari e associazioni, per offrire alle persone in cura percorsi integrati, capaci di supportarle in ogni aspetto. Ne parliamo con uno di loro: Lucio Fortunato, Direttore del Centro di Senologia AO San Giovanni Addolorata di Roma e presidente della Fondazione Prometeus.

Dottor Fortunato, lei ha una lunga esperienza al fianco delle donne che lottano contro il cancro al seno. Com’è la situazione oggi e come si sta evolvendo nel tempo?

Il cancro della mammella è purtroppo molto frequente. Solo in Italia sono più di 55mila all’anno le donne che ricevono la diagnosi. Si tratta della tipologia di cancro più diffusa nella popolazione femminile. La buona notizia è che circa l’87-89% delle donne risulta guarito a 5 anni dalla diagnosi. Quella brutta, però, è che a livello mondiale il numero dei casi di cancro della mammella continua a crescere in modo esponenziale: nel 1990 se ne registravano meno di 1 milione, nel 2030 si stima che ne avremo circa 2 milioni.

Quali sono secondo lei le problematiche legate alla malattia di cui si parla meno e che invece sono più urgenti da affrontare?

Una questione molto preoccupante è quella rappresentata dai fattori di discriminazione legati alla malattia. Nonostante questa grande diffusione, il cancro alla mammella è ancora un fenomeno segnato da enormi disuguaglianze. Dove c’è una maggiore frequenza, ad esempio, c’è anche una maggiore curabilità e la curabilità è proporzionale alla ricchezza del Paese. Anche all’interno dell’Italia stessa, la curabilità varia di molto a seconda di dove si abita. Tra il Nord e il Sud rileviamo una differenza del 5-6%. Dobbiamo lavorare tantissimo affinché questa situazione cambi. Anche dal punto di vista economico, ci sono delle differenze, per esempio alcune regioni prevedono l’esenzione dal ticket per le donne con diagnosi di mutazione genetica BRCA, altre non hanno questo tipo di agevolazioni. In più, le problematiche economiche connesse alla malattia vanno ben al di là dei costi strettamente legati alla sanità. Abbiamo condotto uno studio, per 12 mesi, su 50 donne, tracciando tutte le spese aggiuntive che una paziente affetta da cancro deve affrontare: dalla babysitter per i figli, al parcheggio dell’auto nei pressi dell’ospedale… Abbiamo tenuto conto davvero di tutto e abbiamo rilevato che la spesa sanitaria è solo un piccolo pezzo della spesa media mensile. Gli altri costi, quelli parasanitari, a cui spesso non si pensa e di cui tante volte non ci si rende conto finché non ci si trova nella situazione, sono l’80%. Parliamo di una spesa media che nel primo anno di diagnosi è stimata attorno ai 3-400 euro al mese. Per qualcuno possono non sembrare tanti, ma moltissime persone vengono messe in ginocchio da un’uscita fissa del genere. Una situazione ulteriormente aggravata del fatto che il 60% delle donne in terapia ha una diminuzione del reddito mensile e in un terzo dei casi occorre intaccare i risparmi familiari per far fronte alla malattia.

Tra la paura del cancro in sé e le preoccupazioni collaterali, come quelle di cui ha appena parlato, una diagnosi di tumore ha sicuramente importanti effetti anche sul piano psicologico…

È così. Non dobbiamo mai dimenticare che prima di essere pazienti le donne che prendiamo in cura sono mamme, figlie, sorelle, mogli e allo stesso tempo sono professioniste, cittadine, persone che partecipano attivamente alla nostra società. La diagnosi di tumore può stravolgere la loro vita in tutti questi ambiti. Esiste un mondo enorme dietro la diagnosi. Le donne in trattamento possono perdere i capelli, vedersi trasformate, ingrassare a causa delle terapie, avere secchezza vaginale e difficoltà nei rapporti sessuali, di conseguenza possono andare incontro a problemi psicologici con la famiglia, con il partner e con loro stesse, in primis. Il 20-30% va incontro a stati di ansia e depressione. Con ancor più frequenza nei casi di recidiva. Per anni gli ospedali non si sono fatti carico di questo e ora stiamo lavorando per cambiare le cose. L’attenzione alla qualità della vita di chi affronta le terapie deve essere sempre più centrale.

Come è possibile far fronte a tutti questi aspetti?

Negli anni ho imparato che il lavoro di equipe è fondamentale. In questo le Breast Unit sono un esempio. Dietro all’oncologo c’è un’enorme squadra in cui ognuno dà il proprio contributo alla cura. Come i musicisti di un’orchestra sinfonica, i professionisti di uno staff devono saper lavorare insieme in sinergia perfetta. Sempre parlando per metafore, siamo come gli equilibristi di un circo: se uno sbaglia di un millimetro, cadiamo tutti a terra. Un altro elemento importante sono gli spazi fisici, che consentono l’incontro, la vicinanza. Quando abbiamo avviato la nostra Breast Unit l’abbiamo pensata come una casa per le donne che affrontano il tumore alla mammella. All’inizio avevo paura dei possibili effetti negativi di questa impostazione, temevo che mettendo assieme venti donne disperate avrei solo aumentato la disperazione e, invece, ho scoperto che venti donne che si supportano a vicenda, anche se partono disperate, portano solo un’enorme speranza. Lottano insieme, lavorano insieme, cercano di guarire insieme. È una delle cose più belle che abbia visto nella mia vita.

Il suo racconto, basandosi sulla sua esperienza personale e professionale, si concentra sul mondo delle Breast Unit. Pensa che lo stesso approccio possa applicarsi ad altri ambiti dell’oncologia e della medicina?

Assolutamente. In tutta la medicina c’è un grande bisogno della multidisciplinarietà. Noi una volta a settimana ci riuniamo nella conferenza multidisciplinare e analizziamo caso per caso ogni paziente, per dare indicazioni di trattamento personalizzate. È un metodo di lavoro molto efficace ed efficiente che si può replicare in qualsiasi unità.

Seguono questo modello anche le tante associazioni che affiancano le strutture ospedaliere fornendo sostegno e servizi alle persone in cura e alle loro famiglie. Con Fondazione Prometeus, ad esempio, a Roma ospitate i laboratori di bellezza promossi da La forza e il sorriso Onlus che si rivolgono a tutte le donne in terapia oncologica, indipendentemente dal tipo di tumore. Quanto è importante un progetto del genere?

L’iniziativa de La forza e il sorriso è fondamentale, proprio perché si rivolge in modo diretto alla donna che affronta il tumore, dandole un supporto concreto nell’affrontare le problematiche che la diagnosi porta con sé: relazionali, sociali, funzionali… I laboratori di bellezza consentono alle partecipanti di ritrovare il loro aspetto femminile e, con esso, il senso di sé. I medici e i chirurghi combattono il cancro da oltre un secolo, ma come dicevo prima per molto tempo questa lotta si è concentrata sulla “estirpazione radicale" del tumore, tralasciando l'aspetto interiore delle persone colpite. Ora, noi sappiamo con certezza che sentirci bene con noi stessi è importante. Per donne e uomini questo comprende mantenere un aspetto esteriore che non identifichi la terapia come una "punizione". Non permettere al tumore di farci stare male, di offenderci, è una parte essenziale delle nostre terapie. Il nuovo paradigma di cure, che vede il chirurgo affiancato da una serie di figure professionali specializzate, permette di poter interpretare al meglio questo approccio.

L’attenzione al benessere globale della persona in cura è sicuramente un supporto indispensabile per affrontare le terapie più serenamente e sentirsi meno soli. Ha anche un’incidenza concreta sulle possibilità di guarigione?

Sì. L’approccio multidisciplinare applicato nelle Breast Unit ci ha permesso di avere un tasso di guarigione del 15-20% superiore rispetto ai centri generalisti. È un divario enorme. Non esiste farmaco che possa fare una differenza del genere.